Testimonianze

Morra, 23 novembre 1980...
"Ciò che l'occhio ha visto il cuore non dimentica"

di DINO CARINO

Una domenica come tante altre, con una sola ed unica differenza: temperatura atmosferica anomala. Infatti, nonostante eravamo in autunno inoltrato, il cielo era terso, di un azzurro intenso e faceva caldo. Anche quella domenica, come le altre, ero stato a messa con mio nonno e, dopo pranzo, con gli amici, ci eravamo dati appuntamento al campo sportivo. Iniziammo una partita di calcio che, come avveniva spesso, terminava quando faceva buio. Dopo essere tornato a casa, mi ricordai che c'era un incontro all'asilo parrocchiale per provare dei canti natalizi... Più tardi ero in piazza con i miei fratelli ed altri amici a ridere e scherzare. Eravamo su una panchina di fronte al palazzo Molinari-Indelli quando, all'improvviso, sentimmo un forte boato, poi andò via l'energia elettrica e cominciò un movimento prima sussultorio e poi ondulatorio che a stento ci faceva rimanere in piedi. Il manto stradale sembrava un mare in tempesta, dai tetti cadevano pietre e tegole, vedevamo gli alberi che si piegavano, avvertivamo rumori di case che crollavano. Tutto ciò durò tantissimo e non riuscivamo a capire cosa potesse essere. Mi tornò alla mente che qualche anno prima, alle scuole elementari, avevo fatto un tema sul terremoto del Friuli e pensai che quello che stava succedendo potesse essere proprio il terremoto. Nel frattempo tante persone si erano riversate in strada; la paura e la disperazione era stampata sui volti di chiunque incontrassi, chi gridava, chi piangeva, chi cercava i propri cari. Riuscivo a vedere tutto perché quella sera la luna piena, spettatrice silenziosa, era più luminosa che mai. Mi ritrovai con i miei fratelli, mio padre, mia madre e mia nonna materna, vicino alla fontana in piazza e da lì ci spostammo sotto gli alberi di fronte casa De Paula. Si cominciarono a sentire i primi lamenti, pianti, urla disperate di un signore che in quegli attimi stava perdendo sua moglie. -"Portate un'accetta!!"- gridava a squarciagola. Nell'incoscienza dei miei anni, volevo rendermi utile, portare soccorso, ma mia madre, sapendo del rischio che correvo, mi tenne stretta la mano e non mi permise di andare. Alcuni si fecero largo tra cumuli di macerie e raggiunsero queste sventurate persone riuscendo ad estrarre il corpo, ormai privo di vita, della donna. La portarono in piazza, la adagiarono su una panchina e la coprirono con un lenzuolo bianco. Cercarono di consolare il marito, lo fecero sedere su una sedia, accanto alla moglie, gli accesero un fuoco e gli posero una coperta sulle spalle. In piazza una fitta coltre di polvere copriva tutto. Le scosse di assestamento si susseguivano incessantemente. Eravamo attoniti, ancora increduli di quello che ci stava capitando. Una bambina che qualche giorno prima aveva compiuto quattro anni era morta; gli altri familiari erano feriti ma salvi. Riuscirono ad estrarla dalle rovine di casa e la portarono in piazza, al centro della strada, vicino all'asilo. La posero sul sedile posteriore di una Fiat 1100, sembrava che dormisse: nessuna smorfia, i capelli corti impolverati, il vestitino della domenica, sembrava una bambola. Povera bambina, così piccola; sul sedile anteriore c'era una donna anziana, piangeva, aveva una gamba fratturata. Dovendo affrontare la notte, mio padre parcheggiò la macchina nello spiazzo al di sotto dell'asilo e, fattosi coraggio, si precipitò a casa dove prese cappotti e giacconi per ripararci dal freddo. In macchina c'erano la nonna materna, i nonni paterni, mia madre e mio fratello minore Claudio. C'era tanta tristezza e non si parlava molto. Io, Giovanni, mio fratello più grande, e mio padre facevamo capannello con altre persone ed intanto arrivavano le prime notizie: un'anziana signora, abitante nella zona dei "piani di sopra", che si trovava con un operaio in casa per dei lavori da farsi, rimase sepolta dalle macerie e non rispondeva alle chiamate dei soccorritori. Il suo corpo venne recuperato qualche giorno dopo dai militari dell'esercito. Invece l'uomo che la precedeva era riuscito a salvarsi, nonostante fosse stato in parte sepolto da macerie. Purtroppo questo signore morì qualche giorno dopo per un tragico quanto sfortunato evento. Anche una coppia di anziani coniugi che abitavano lungo la discesa del campo sportivo, giacevano sotto le macerie della loro casa e non davano più segni di vita. Stessa sorte toccò ad un uomo e sua moglie che abitavano Dietro Corte e ad altre due signore che abitavano nel centro storico. Man mano che trascorrevano le ore, sapemmo che tutte le strade erano ostruite da macerie ed era impossibile il transito dei veicoli. L'unica strada dove si riusciva a passare era via Longobardi. La zona del centro storico era quasi del tutto distrutta, le poche case che rimasero in piedi erano gravemente danneggiate. Le zone di "Dietro Corte" e"Buulardi" erano completamente rase al suolo. Tanti danni anche nella zona bassa del paese. Finanche la Guglia del nostro Santo Protettore era danneggiata tanto che, qualche tempo dopo, la statua di San Rocco fu rimossa e messa al sicuro in un vicino locale e la Guglia fu ingabbiata da una struttura in ferro. Anche nelle zone di campagna si registravano tanti danni e si piangevano molti morti. Le zone più colpite erano state Selvapiana e Santa Lucia. Solo dopo qualche giorno si riuscì a fare una stima dei concittadini deceduti a Morra e nei paesi limitrofi. Alla fine si contarono una cinquantina di morti e numerosi feriti; tante altre persone, perlopiù anziane, morirono nel giro di qualche mese anche a causa delle conseguenze del terremoto. Tempo qualche giorno e arrivarono i primi soccorsi e con loro anche il cattivo tempo e la neve. Incominciò la vera e propria emergenza e con essa i numerosi disagi e le tante sofferenze. Iniziò una nuova vita e nulla fu più come prima. Il mese successivo avrei compiuto quattordici anni.

Quella sera, improvvisamente

di DAVIDE DI PIETRO

Avevo 10 anni, compiuti da poco.
I miei, in quei tempi, avevano un bar a S. Rocco ed io, da piccolo che ero, li aiutavo in quel che potevo. La sala del bar era intercomunicante con l’abitazione tramite una porta che, a volte, restava aperta. Nel locale pubblico c’era un banco, alcuni tavolini da gioco, un Calcio Balilla, un videogioco tipo pac-man e il tanto amato flipper. Una mezz’oretta prima del catastrofico evento mi ero recato a comprare le sigarette a mio padre, che allora fumava, al Sali e Tabacchi di Mastu Pèppo. Rientrato a casa, appesi all’appendiabiti il giubbotto verde di velluto, che allora si usava tanto e a cui io tenevo molto, e mi fermai a guardare i gol della domenica calcistica. Mio padre si trovava nella stessa stanza. Solitamente nel tempo libero, oltre al lavoro presso l’Enel di S. Angelo dei Lombardi, si dedicava a svolgere tutti quei piccoli lavoretti che occorrono in casa, e non solo; quella sera stava sistemando dei listelli di abete, quelli che si usavano per rivestire le stanze per renderle più calde ed accoglienti, e si trovava su una scaletta. Mia madre, sempre premurosa, teneva un occhio alla cena che stava preparando e uno al marito sulla scala. Nel bar c’erano tre clienti: due giovani, Gerardo Nigro - figlio di Arcangelo - e Rocco Pagnotta - fratello del compianto Pietro Pagnotta - e zì Felumèno Covino, il nonno materno del mio amico Delio Ambrosecchia. I ragazzi, che potevano avere all’incirca una quindicina d’anni, giocavano al flipper e, di tanto in tanto, urlavano ed imprecavano perché, a causa delle spinte, il gioco andava in tilt; zì Felumèno, che ricordo come una persona molto mite, guardava divertito i due accaniti giocatori. Mio fratello Enzo, che aveva 16 anni, era dietro al banco a sistemare bicchieri e tazzine. All’improvviso arrivò, sembrava un fortissimo e lunghissimo tuono. La luce si spense, la casa iniziò a dondolare, io caddi a terra e sentii mio padre urlare: “Il terremoto!!! Il terremoto!!! Restate in casa, non vi muovete che la casa è ben costruita!!!” Mia madre mi chiamava e mi cercava, ma non si vedeva nulla. Io, che ero caduto a terra a stavo rotolando sotto il tavolo, cercavo di rialzarmi, ma non ci riuscivo perché sembrava di stare su una giostra che mi sbatteva a destra e a sinistra. Sentivo un boato continuo e le urla drammatiche sia dei miei genitori che delle persone nella sala del bar, oltre il rumore di vetri che si rompevano – erano i bicchieri e le bottiglie nel bar che cadevano dagli scaffali. Ricordo che in quell’istante ero molto confuso, non mi rendevo conto di ciò che stesse accadendo e avevo molta paura. Avevo sentito parlare dei terremoti, soprattutto a scuola, ma nella realtà è tutt’altra cosa! Dopo un periodo interminabile – non si riusciva realmente a comprendere quanto stesse durando – la terra si calmò e molto rapidamente uscimmo di casa. Tutti noi stavamo bene, a parte mio fratello che si era scheggiato una mano con il vetro di un bicchiere. Fuori vedemmo l’inferno, una scena vista soltanto nei film di fantascienza. L’abitazione dei Zuccardi, che era alta tre piani, era completamente caduta e le macerie arrivavano ad oltre tre metri d’altezza. C’era un gran polverone e mio padre ci invitava a tenere davanti alla bocca un fazzoletto. Io ero terrorizzato ed non riuscivo a comprendere ciò che fosse accaduto. Piangevo, spaventato sia da ciò che vedevo davanti a me e sia a causa della preoccupazione che leggevo negli occhi dei miei genitori. Il nostro pensiero andò subito a tutti i nostri parenti sparsi per il paese e ai nonni paterni, che abitavano nel vicolo S. Rocco. A causa della polvere riuscimmo a malapena ad intravedere la chiesa di S. Rocco e, vedendo la facciata intatta, ci rinfrancammo un po’. Ma così non era, in quanto più tardi scoprimmo che il fronte dell’edificio era rimasto sì integro, mentre la navata centrale e quella di sinistra, che volgeva verso il vicolo, erano cadute. Gli ospiti del bar scavalcarono immediatamente le macerie e, disperati, si recarono presso le rispettive abitazioni per sincerarsi delle condizioni dei propri familiari, attraversando piazza S. Rocco e i relativi vicoli. Di loro non sapemmo niente fino al giorno dopo. Noi, invece, per evitare di valicare la montagna di pietre che ci trovavamo dinnanzi, attraversammo il giardino di Don Zaccaria, dove ora sorge l’ufficio postale, per uscire in piazza Giovanni XXIII, dove trovammo assembrate un po’ di famiglie. Rocco Pasquale, che abitava ed abita in quella piazzetta, faceva andirivieni dalla sua abitazione per prelevare dell’acqua, del disinfettante e quant’altro fosse necessario in quella situazione. Sentivo le persone parlare incessantemente dell’evento e nelle loro parole avvertivo una forte preoccupazione: “Ha distrutto tutto, ora come faremo?” - diceva una signora, “Chissà i miei parenti che stanno ad Orcomone…” - replicava un altro signore. Dopo esserci fermati lì alcuni minuti per curare la ferita di mio fratello, i miei decisero di spostarci verso via Matteotti, in prossimità della casa dei nonni paterni e di Alfonsina Zuccardi, un’anziana signora che mia madre accudiva da quand’era giovane. Passammo per via Longobardi, quindi per piazza S. Rocco fiancheggiando la Guglia, e poi per il vicolo che porta su via Matteotti. Lungo via Longobardi c’erano cornicioni appesi; piazza S. Rocco era avvolta da una coltre di polvere a causa della chiesa e delle diverse abitazioni diroccate. L’atmosfera era stranamente calma, con un silenzio che incuteva terrore, i lampioni erano spenti per via della mancanza dell’energia elettrica, ma si intravedeva bene qualsiasi cosa grazie alla luna che splendeva in cielo. Da lontano giungevano delle voci che non riuscivamo a distinguere e che rompevano quella quiete irreale. Subito giungemmo nel giardino dei Mariani situato alle spalle dell’abitazione dei nonni paterni. Lì c’era una baracca di zinco usata come deposito. Mio padre, insieme alla buonanima di Diego Gizzo, si avventurò nel vicolo S. Rocco per liberare i miei nonni che erano rimasti intrappolati in casa a causa della chiesa che in parte era andata distrutta. Scardinata la porta d’ingresso, i nonni furono tratti in salvo e portati nel giardino dove si iniziò ad approntare un rifugio di emergenza, utilizzando sia la baracca preesistente che l’ulteriore materiale disponibile. Intanto, il nostro pensiero era rivolto a tutti i parenti domiciliati nelle varie contrade e, in particolare, a zio Nuccio e zia Carmela che si erano recati a Conza per una visita di cortesia. Di tutti loro non ne sapemmo nulla fino al mattino seguente. La notte i miei la trascorsero nel rifugio suddetto; io, invece, mi appisolai nell’Alfasud di Nicola Covino insieme al figlio Giovanni, mio compagno di giochi. Non riuscimmo a dormire, scossi da ciò che era accaduto, anche perché di tanto in tanto l’auto dondolava per le scosse di assestamento. A causa della mancanza di informazioni e di comunicazioni, sentivo gli adulti parlare delle loro preoccupazioni nella speranza di ricevere dei soccorsi nell’immediato. Io e Giovanni, nell’auto, tra un pisolino e una chiacchierata, arrivammo al fare del giorno. La mattina presto gli zii tornarono a Morra a piedi perché le strade erano interrotte e perché la loro auto era rimasta bloccata dalle macerie delle abitazioni di Conza. Quello che raccontarono aveva dell’incredibile: strade spezzate in due, alti palazzi ridotti a pochi metri di macerie, un’atmosfera inverosimile per le nostre menti. Questo ci faceva preoccupare maggiormente in quanto capimmo che il sisma aveva avuto degli effetti devastanti. Poi venimmo a conoscenza che Conza della Campania era stata completamente rasa al suolo. I miei zii furono dei sopravvissuti, dei graziati dalla Divina provvidenza. La mattina del 24 intravidi un gruppo di persone davanti all’ambulatorio comunale, situato a poca distanza dal nostro riparo, ma i miei non mi facevano allontanare. Furtivamente riuscii a farlo e, incuriosito, mi recai in quel posto. Vidi gente ferita che cercava di farsi medicare con quello che c’era e che parlava dei soccorsi che stavano per arrivare. Si diceva che Conza, S. Angelo e Lioni – comuni confinanti con il nostro – erano stati completamente distrutti e che i morti erano tanti. A Morra centro si contavano poche vittime, ma in seguito ci si rese conto che i morti furono tanti e soprattutto nelle contrade dove le abitazioni erano più vecchie. Mentre ascoltavo incuriosito queste testimonianze, tra le auto parcheggiate ne intravidi una che mi lasciò molto scosso. In essa si trovavano due adulti, un marito e sua moglie, dall’evidente espressione preoccupata. La donna aveva in braccio un bambino avvolto in una coperta. Il piccolo sembrava riposare e aveva il viso sanguinante. In quell’istante non sapevo cosa fosse accaduto, ma poco dopo venni a sapere la verità: quel bambino era in realtà una bambina che era rimasta intrappolata tra le macerie di casa sua. Da lì a poco spirò. Il suo nome era Rosa.

L’intervento dei volontari del Politecnico di Zurigo nel post terremoto morrese

Nell’estate 1981 un gruppo di studenti delle facoltà di architettura ed ingegneria edile del Politecnico di Zurigo prese l’iniziativa per organizzare un volontariato per le zone terremotate del Sud Italia. Furono scelti i paesi di San Gregorio Magno e Morra De Sanctis, quest’ultima per il legame storico con Francesco De Sanctis, che durante l’esilio in Svizzera fu professore presso l’istituto di Zurigo.

di SUSANNE BUENZLI

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Le iniziative dell'Associazione Morresi Emigrati per Morra nel post-terremoto e nella ricostruzione

L’A.M.E., Associazione Morresi Emigrati, fondata nel 1981 nella regione di Basilea, Svizzera, si allargò ben presto in tutti i Cantoni elvetici dove risiedevano morresi emigrati. Si rese subito benemerita verso il paese d’origine Morra De Sanctis. Nella confusione generale del dopo terremoto rappresentò un sicuro punto di riferimento...

di GERARDINO DI PIETRO

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Il Gruppo Epicentro a Morra de Sanctis

Il Gruppo Epicentro é nato dall’iniziativa di alcuni studenti del Politecnico e dell’Università di Zurigo, ai quali si aggiunsero due insegnanti dei corsi di terza media per italiani all’estero all’ECAP - CGIL (appunto io e Christoph, che restò per una settimana a Morra). Organizzammo una prima riunione coordinatoria a Zurigo, il 25.11.1980...

di ALBERTO GIANINAZZI
Testimonianza scritta nel dicembre 2010 e pubblicata sulla Gazzetta dei Morresi Emigrati - Anno XXIX n° 4-6 del 2011 a cura di Gerardino Di Pietro

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«Il nostro ritorno a Morra»

Sono stato invitato a Morra De Sanctis (AV), delegato Caritas, per il 23 novembre per rievocare l’aiuto dato e per commemorare insieme a loro i defunti di quella sera». Chi parla è Enzo Dall’Olio, che nel 1980 come volontario della Caritas bolognese operò a Morra per portare soccorso dopo il terribile terremoto dell’Irpinia.

da BOLOGNA SETTE, supplemento del quotidiano AVVENIRE del 5/12/2010
Pubblicato sulla Gazzetta dei Morresi Emigrati - Anno XXIX n° 1-3 del 2011 a cura di Gerardino Di Pietro

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“Qui Morra De Sanctis”: una tenda sotto la neve

L'ottimista che, armato di carte geografiche più o meno particolareggiate, tentasse di trovare la posizione del Comune di Morra De Sanctis in provincia di Avellino, piena Irpinia, ne resterebbe deluso. Non la trovammo facilmente nemmeno noi la sera del 28 novembre 1980.

di MIMMO MARTINUCCI

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A trent'anni dal terremoto dell'80

Anche Morra De Sanctis, e non poteva essere diversamente, ha ricordato con una serie di iniziative la triste ricorrenza del trentennale dal disastroso terremoto che ha colpito l'Irpinia la sera del 23 novembre 1980.

di FRANCESCO PENNELLA e GIUSEPPE MARRA
Pubblicato sulla Gazzetta dei Morresi Emigrati - Anno XXIX n° 1-3 del 2011 a cura di Gerardino Di Pietro

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